giovedì 2 aprile 2015

La sfida dell'incontro

Come ogni primo incontro, quello tra educatore e ragazzo difficile implica un delicato passaggio: quello del reciproco riconoscimento. 
La posta in gioco, per l'educatore, è quella di passare dall'opacità alla trasparenza di sé. In questi momenti di osservazione, tra i due soggetti ha luogo un processo di costruzione delle loro reciproche rappresentazioni ed essi sono consapevoli che ciò che l'altro penserà dell'uno sarà in parte dovuto a come egli parlerà, racconterò, si muoverà, agirà... 
E' come se durante l'incontro l'educatore e il ragazzo si mettessero in scena.
Prerequisito indispensabile all'osservatore è la consapevolezza del senso di vulnerabilità che pervade l'incontro, in quanto esso implica un certo grado esposizione di sé all'altro e un suo probabile giudizio. 
Essendo inoltre la relazione educativa fortemente asimmetrica a discapito dell'educando, quest'ultimo si sentirà in una posizione di inferiorità e di debolezza; tenderà quindi ad essere molto ansioso e verosimilmente si presenterà all'educatore con  atteggiamenti evasivi orientati più sulla difesa che sulla fiducia e sull'apertura. E' dunque altamente probabile che, al primo incontro, il ragazzo si presenti come un muro invalicabile, chiuso, lontano ed inaccessibile; l'educatore deve essere consapevole che tali atteggiamenti possono essere delle forme di difesa attraverso le quali il ragazzo cerca di far fronte al disagio e alla sensazione di essere vulnerabile di fronte all'altro.
L'immobilità del discorso iniziale e la sospensione del discorso personalizzato permettono di neutralizzare la potenziale aggressività dell'incontro e di contenere quel disagio che accompagna la percezione di essere oggetto di conoscenza.




Un altra competenza professionale fondamentale dell'educatore, soprattutto nei primi momenti di reciproca conoscenza, è la capacità di sospendere il giudizio e -ancora più difficile- il pregiudizio. Si tratta di un difficile e delicato lavoro su di sé, sulla costruzione e decostruzione del proprio punto di vista che permette di mettere fra parentesi le attribuzioni precostituite e le sedimentazioni stratificate di senso.



Forse mi ripeto, ma ci tengo a sottolineare ancora una volta quanto l'autentica comprensione dell'altro implichi un'attenzione privilegiata non tanto agli agiti e ai comportamenti irregolari dei ragazzi,quanto al senso e al significato che essi hanno avuto per il ragazzo stesso. E' dunque fondamentale che l'educatore si chieda: "Cosa ha provocato quel comportamento?", "Qual è la sua genesi?", "A quale scopo?", "In che nesso significativo sta, per il ragazzo, il suo agire?"
C'è un senso delle cose e delle esperienze che ad esse ha dato il ragazzo e c'è un senso che ad esse diamo noi, in quanto educatori. Perché la relazione educativa sia efficace è necessario che questi due sensi si pongano in comunicazione ed è all'educatore che spetta il compito di metterli in prospettiva. Egli dovrà mettersi dal punto di vista del suo educando ed osservare dal suo mondo; dovrà spogliarsi delle sue convinzioni e del suo modo di pensare e cogliere la visione del mondo del ragazzo; dovrà poter riuscire ad interpretare quel particolare comportamento così come lo interpreta il ragazzo.




Una cosa è sapere che quel ragazzo è figlio di genitori separati, un'altra cosa è capire cosa la separazione dei genitori ha significato per lui.
Una cosa è constatare che proviene da un ambiente socialmente, economicamente e culturalmente deprivato, un'altra cosa è comprendere quale immagine del mondo e di sé gli si è costruito a partire da quell'ambiente.

Un intervento educativo dovrà modularsi a partire da queste diverse percezioni.


Il lavoro d'équipe



Essere educatori non significa essere un po' psicologi, un po' sociologi, un po' assistenti sociali o avvocati, significa essere in grado di tradurre il proprio sapere pedagogico in azione educativa nella consapevolezza che in molti questo necessita di una continua negoziazione del proprio punto di vista con quello proprio di altre figure professionali.

Il lavoro d'équipe si rende dunque necessario ed è considerato la premessa necessaria di un intervento educativo efficace.
La comprensione entropatica è il risultato di un lento, progressivo e prudente lavoro di ricostruzione, di avvicinamento e di interpretazione di un soggetto, è il luogo unitario dove dovrebbero convergere più sguardi.








Piero Bertolini, Per una pedagogia del ragazzo difficile, Bologna, Malipiero, 1965.
Piero Bertolini e Letizia Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento La nuova Italia, Firenze, 1993.

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